Celebrare la salvezza. Perché?
di Miriam D’Agostino ( Sr Myriam)
Consapevoli che lo studio teologico, così come ogni altra forma di conoscenza, non può prescindere dal rapporto tra metodo e oggetto, per rispondere al perché della liturgia, è necessario individuare tra i metodi, che nel corso della storia si sono sviluppati e che oggi coesistono, quello maggiormente percorribile per la nostra indagine.
Solo con la Sacrosantum Concilium, del Concilio Ecumenico Vaticano II, è stato evidente che il metodo sistematico, ossia quello della definizione, preoccupato ad occuparsi scientificamente del “che cosa è la liturgia ?”, non fosse più sufficiente a rispondere alle esigenze dell’uomo post-moderno. Esso finiva con il ridurre tutto ad un dovere, la liturgia veniva considerata come uno dei doveri fondamentali che l’uomo dovesse rispettare; estremizzando, si potrebbe essere dire che andare a messa la domenica e rispettare il codice della strada sono la stessa cosa.
Tale metodo è stato dominante fino alla Mediator dei del 1947, in cui leggiamo ancora “il dovere fondamentale dell’uomo è certamente quello di orientare verso Dio se stesso e la propria vita”. Successivamente, con il metodo esegetico (cfr.Gv4,21-24; Rm12,1; 1Cor11,20-27; Lc24,25-35; At2,42) si è cercato di trovare un fondamento scritturistico alla liturgia, constatando però la difficoltà che le risposte all’interno della Bibbia sono rare e deboli, rischiando così di passare da una definizione scientifica ad una troppo astratta
Ulteriore passo in avanti, nella nostra ricerca metodologica, ci viene offerto dal metodo narrativo, che in maniera completamente differente dalla definizione, non ci pone come spettatori esterni all’oggetto in questione, ma ci mette dentro, nella dinamica interna del racconto, mettendo in discussione ogni previa convinzione o pretesa del lettore di avere già la definizione pronta.
Ma il vero e profondo cambio di “rotta”, la ricerca teologica lo ha vissuto nel confronto con le altre discipline del sapere, con le quali a partire dalla metà del 1800 si è incontrata/scontrata. Anni in cui Husserl getta le fondamenta per una fenomenologia trascendentale, di cui Merleu-Ponty, Arendt, Stein e Levinas ne svilupperanno ampiamente i contenuti, anni in cui cambiano completamente le domande, i metodi e le relazioni con gli oggetti della ricerca.
In un panorama culturale così dinamico e in continuo mutamento, necessariamente anche per “la questione liturgia” si è cambiata strada, avvalendosi del metodo fenomenologico, ossia dell’osservazione dei fenomeni nella loro complessità, permettendoci di rischiare per quel passo in più nella fede che ci libera dalla sterilità dei doveri cultuali.
Il metodo fenomenologico ha nuove domande a cui dare riposte; non solo un “che cosa è la liturgia?”, ma anche un “come?” e un “perché?”, con la consapevolezza che con esso non ci troveremo mai davanti ad un’unica soluzione, ma a molteplici, poiché l’oggetto di riferimento non è più solo un concetto, un’ idea astratta, ma è azione, vita, storia in movimento, dinamicità.
Con questo metodo nella liturgia, tutti i paradigmi trovano il loro posto ma con categorie nuove, a partire dai linguaggi necessari per reintegrare il rito nella teologia, come fonte e culmine della vita cristiana.
La questione sul “come” sta all’origine della chiesa nell’epoca antica, con la crisi tardo-moderna ci siamo trovati di fronte ad un “che cosa”, ma solo con il Movimento liturgico, nell’epoca post-moderna, abbiamo avuto il coraggio di chiederci anche il “ perché” della liturgia, che ha in se tre grandi dinamiche polari da cui partire e a cui fare ritorno: l’esperienza religiosa, tra immanenza e trascendenza; il linguaggio simbolico tra segno e simbolo; l’azione rituale tra azione e rito.
L’esperienza religiosa.
Nessun uomo o donna può autodeterminarsi, ciascuno per natura è relazione con l’altro e l’Altro, ed è per questo liturgico. L’uomo è continuamente teso e coinvolto, sospeso e legato tra reale e immaginario, tra ciò che lo tiene con i piedi per terra e ciò che gli permette di alzare lo sguardo, tra l’immanenza nella storia, nella quotidianità, nella ferialità e la trascendenza dell’Oltre, dei desideri, di ciò che vorremo fosse.
L’esperienza religiosa permette all’uomo proprio di vivere in questa tensione, in questa dinamicità, presentandosi come compresenza e sintesi di questi due poli apparentemente così lontani e opposti, come luogo in cui possono coabitare, coesistere.
Nell’esperienza religiosa la differenza delle polarità immanenti e trascendenti diventa generatrice di sacralità, il sacro infatti non si pone mai come alternativa al profano, ma come sua irruzione, sua eccedenza, come dimostra la pericope di Es3,1-5 in cui un luogo comune diventa luogo sacro, un tempo qualunque diventa un tempo sacro, nel momento in cui il Trascendente irrompe nella realtà dell’immanente.
Dell’esperienza religiosa possiamo allora considerare tre caratteristiche fondanti, essa è: incondizionata, presuppone un’automanifestazione ed è gratuita.
Incondizionata proprio perché irruente, nessuno ne può determinare l’arrivo, è sempre sorpresa dell’Oltre che desta stupore e meraviglia, incalcolabile perché prescinde da ogni atto o azione umana. Questo suo essere incondizionata presuppone un’automanifestazione, ossia lo svelarsi di una realtà inaccessibile, di cui non se ne può disporre in termini di potere, ma solo di stupore.
L’automanifestarsi incondizionato dell’esperienza religiosa quindi, non può che essere gratuita, donata, fuori dal compromesso dalle logiche di potere, dalla meritocrazia, dal profitto.
L’esperienza religiosa o è gratuità o non è; essa non è un pacco regalo, ma è dono in quanto crea, per sua natura le condizioni per poter essere accolta nella vita quotidiana e feriale dell’uomo, altrimenti resterebbe nel limite insuperabile di meritarsela.
Il linguaggio simbolico.
“L’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi.”
Partendo dalla constatazione che in ogni esistenza umana il legame tra esperienza ed espressione è indispensabile, anche l’esperienza religiosa ha quindi bisogno di un linguaggio proprio per poter essere espressa, vissuta, realizzata.
Il linguaggio dell’esperienza religiosa è il linguaggio simbolico, in quanto ci rimanda sempre a qualcosa in più di ciò che apparentemente significa, ci mette nella condizione dei poeti e dei bambini che guardano e raccontano il mondo attraverso le metafore.
Segno e simbolo sono le colonne portati della dinamica interna al linguaggio, essi trovano la loro più alta espressione e sintesi nelle celebrazioni rituali.
Il segno è costituito da un significato, il “contenuto” e da un significante, il “contenitore”. Esso ovviamente è referenziale, in quanto rimanda sempre ad una realtà di riferimento che si serve di un codice per formulare un messaggio e quindi, per poter essere comunicato da un mittente ad un destinatario.
La struttura del segno però può essere messa in discussione e infranta dal simbolo ( dal greco symballo = gettare insieme, mettere insieme) che ne amplia notevolmente il significato.
Il simbolo, a differenza del segno al quale corrispondevano un significante ed un significato, genera molteplici significati per un unico significante.
In questo modo il simbolo ci permette di avere un livello della realtà, in cui le componenti sono in relazione di senso; più sono i simboli, molteplici sono le relazioni di senso, questa è ciò che definiamo la dimensione referenziale del simbolo.
Anche se spesso non ce ne rendiamo conto è proprio all’interno delle nostre relazioni più intime e familiari che creiamo linguaggi alternativi, i quali generano e favoriscono la comunione, infatti è proprio il linguaggio simbolico che dice sempre “ altro”, presupponendo e creando la comunione.
Per questo, l’esperienza religiosa per potersi dire nella dinamica sacro/profano, ha bisogno del linguaggio simbolico, in quanto solo attraverso di esso riesce ad esprimere l’oltre il visibile; il suo ri-velarsi, che al tempo stesso vuol dire nascondersi ancora sotto un altro velo e mostrarsi perché se ne faccia esperienza.
“Il sacro è dunque un apparire in simbolo”, da ciò deduciamo che, se l’esperienza del sacro come irruzione del profano appare solo nel linguaggio simbolico, anche la “memoria” di esso avviene con la stessa modalità linguistica. Garanzia del legame tra il linguaggio simbolico e l’evento sacro, nel caso della storia della salvezza, di cui fare memoria, è la celebrazione, all’interno della quale al simbolo va lasciata la sua dignità di simbolo, non va né tradotto, né spiegato, né anticipato, ma compiuto, realizzato, reso percepibile. La logica del simbolo non può e non deve essere spiegata altrimenti perde di valore, di significato; un segno ha valore quando dice da solo i suoi molteplici significati, se questi stessi vengono tradotti e spesso verbalizzati non è più segno.
La dimensione comunicativa del linguaggio simbolico è intersoggettiva, in quanto presuppone sempre una relazione di scambio tra due soggetti, tra un “io” e un “tu” che si incontrano.
Il simbolo è ciò che sta prima della parola detta, la anticipa e in un certo senso le permette di essere, per questo ci permette di dire, di comunicare l’Indicibile nelle e delle celebrazioni. Il simbolo, proprio perché precede, contemporaneamente eccede il linguaggio; esso è ciò che permette all’uomo di essere in relazione autentica con il mondo, nella dimensione dell’immaginario che dà dignità e parola a tutte le cose lasciando loro il diritto/dovere di comunicarsi, con se stesso, nella dimensione dell’inconscio, del sogno, come privilegiato linguaggio di rivelazione; e con l’altro, nella dimensione dell’amore, che nella comunione delle differenze diventa feconda, generatrice di vita.
Il linguaggio simbolico della fede, ha quindi un luogo in cui vive e abita, dove tutte queste dimensioni vengono armoniosamente ordinate, pur essendo irruzione del reale nell’azione rituale.
L’azione rituale.
“La celebrazione, che a livello di linguaggio ricorre al simbolo, a livello di azione ricorre al rito”, che si pone nella dinamica polare con l’azione, come comportamento e sua gestione.
L’azione è la modalità dinamica con la quale l’uomo interviene e cambia il reale entro cui si trova, quando essa assume un rilievo di maggiore importanza nella storia dell’uomo, possiamo definirla “evento”. Un evento viene ricordato, di un evento festeggiamo l’anniversario, ne celebriamo la memoria e per farlo abbiamo bisogno di azioni simboliche che ci permettano di rivivere nell’imitazione quello stesso evento avvenuto nel passato. Per questo l’uomo, da sempre e necessariamente per raccontare di sè, della sua storia, ricorre al rito come ri-produzione di un fenomeno.
Le conseguenze di questa attualizzazione operata dell’azione rituale le cogliamo nella dimensione interpersonale, spaziale e temporale. Nella prima ci permette di uscire dalla produttività, il rito diventa un’azione no-profit, in cui non vi è profitto, non vi è utile, esso è per sua natura libero dalla schiavitù della commercializzazione dell’utile; è il valore dell’esteriorità, della corporeità che mette in relazione, che mi “obbliga” a riconoscere la presenza di altri accanto e differenti da me.
Nella dimensione spaziale il rito va consumato, non lascia la possibilità di fare “scorte”, il rito proprio perché dono, va scartato, prodotto altrove ma consumato nell’atto di libertà dell’uomo. Non produciamo riti ma li consumiamo, li gustiamo.
Spazio vissuto, abitato, consumato, dove il marmo non resta gelidamente lustrato o impolverato, ma calpestato, vissuto, sporcato.
E infine, nella dimensione temporale il rito ci permette di uscire dalla ferialità del tempo, dal ritmo del lavoro e del non lavoro, per entrare nella dimensione senza orologio della festa, il rito è festa celebrata con piacere. Dove il comandamento “ricordati di santificare le feste”, non è l’obbligo al precetto domenicale, ma l’invito a saper vivere il rito come festa capace di “trasgredire tutto ciò che è controllabile produttivo, per rivelare l’ambito di una possibile trascendenza”.
Conclusione.
Esperienza religiosa, linguaggio simbolico e azione rituale ci hanno permesso di approdare ad un’unica esperienza di sintesi del fenomeno del “nome proprio”, più che ad una vera risposta definitoria sul perché celebrare la salvezza. Nome in cui riconosco e attraverso cui pronuncio l’altro, unico, irripetibile e diverso da me; esperienza che a maggior ragione si realizza nella relazione con Dio, il totalmente Altro e il pienamente Unico.
Quando si compie un rito religioso, non ci si rivolge mai ad un generico Dio, ad un Dio qualunque, ma al nome proprio con il quale Dio si rivela e di cui necessariamente ne facciamo una qualche esperienza che ci consente la libertà festiva, di trasgredire il reale per sostituire il controllabile e il produttivo, con l’originario e il definitivo.
Celebrare la salvezza. Perché?
Bibliografia.
G.BONACCORSO, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia, Ed. Messaggero Padova, Padova 2003
G.BONACCORSO, La liminalità del rito, Ed. Messaggero Padova, Padova 2014
E.LEVINAS, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Ed. Città Nuova Roma 1984
J.RIES, Simbolo. Le costanti del sacro, Jaka Book, Foligno 2008
L.WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus- Biblioteca Einaudi, Torino 1998
Enciclopedia delle religioni. Vol. I Oggetto e modalità della credenza religiosa, ed. M. ELIADE, Marzorati, Jaka Book, Milano 1993.
Link: http://www.monasterosantanna.it/celebrare-la-salvezza-perche/
Shorten: https://goo.gl/oucKwm
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